Meglio soli? No, grazie. Una scossa elettrica meglio dei nostri pensieri (quali pensieri?)

La scienza conferma: la solitudine con i propri pensieri è così intollerabile che molti preferiscono un dolore fisico.

“Meglio soli che male accompagnati” è un proverbio che evoca dignità, autosufficienza, la scelta consapevole di una sana solitudine rispetto a una compagnia negativa (tossica, magari, diremmo al giorno d’oggi). Un’idea nobile come nobili sono le parole che usiamo volendoci dare un tono di superiorità rispetto al resto dell’umanità così dipendente dall’alterità e, soprattutto, dalla modernità – parole di cui ci riempiamo la bocca come “mindfulness”, “digital detox” e “bisogno di staccare”.

Ci lamentiamo del ritmo frenetico e della connessione perpetua. Eppure, quando arriva il momento della verità, quando ci troviamo davvero faccia a faccia con l’unica compagnia che non possiamo mai abbandonare – noi stessi – la maggior parte di noi scappa. E non scappa verso una chiacchierata con un amico, ma verso un dolore fisico, pur di non sentire il frastuono, o il silenzio, della propria mente.

Non è una metafora. È il risultato sconcertante di una serie di esperimenti condotti dall’Università della Virginia e pubblicati sulla rivista Science. I ricercatori, guidati da Timothy Wilson, hanno messo delle persone in una stanza, da sole, senza cellulari, senza libri, senza alcuno stimolo. Solo con i loro pensieri. Il risultato? Un fallimento clamoroso. Metà dei partecipanti ha dichiarato di non aver apprezzato per nulla l’esperienza. A casa, i risultati sono stati peggiori, con molti che hanno barato, accendendo la radio o lo smartphone prima del tempo.

Ma il dato più agghiacciante arriva dall’esperimento finale. A un gruppo di 55 persone è stato dato un pulsante. Premendolo, avrebbero ricevuto una leggera ma spiacevole scossa elettrica, la stessa che in un test precedente avevano dichiarato di voler evitare pagando 5 dollari. Cosa è successo quando sono stati lasciati soli con sé stessi per 15 minuti, con quel pulsante a portata di mano? Il 67% degli uomini e il 25% delle donne ha premuto il bottone. Volutamente. E non solo una volta.

Preferiamo un dolore fisico controllato al disagio mentale del silenzio. Meglio male accompagnati da una scossa che soli con i nostri pensieri.

Questo non è più solo “dipendenza da smartphone”. È qualcosa di più profondo e preoccupante. È un’assuefazione patologica agli stimoli esterni che ha atrofizzato la nostra capacità di stare nell’introspezione. Il problema non è che siamo annoiati. Il problema è che il nostro cervello, abituato a un flusso ininterrotto di input – notifiche, like, video, news – interpreta l’assenza di rumore come un pericolo, un vuoto da riempire immediatamente. Anche a costo di infliggersi una piccola dose di sofferenza.

La psicologia cognitiva ci ricorda che la mente umana, quando non è impegnata in compiti specifici, attiva una rete neurale chiamata “Default Mode Network” (DMN). Questa rete è cruciale per l’introspezione, la riflessione sul passato, la proiezione nel futuro e la costruzione del senso di sé. È il regno della creatività e dell’elaborazione profonda. Eppure, oggi, ne siamo terrorizzati e non le permettiamo mai di attivarsi pienamente, perché al primo accenno di “vuoto”, afferriamo il telefono per tappare quel buco con un contenuto digitale.

Allora, la tecnologia ci sta rendendo superficiali? La risposta forse non è così binaria. La tecnologia è solo il mezzo, il distributore automatico e iper-efficiente della dose di stimoli di cui siamo diventati dipendenti. La radice del problema è nella nostra incapacità di tollerare uno stato mentale non produttivo, non connesso, non intrattenuto.

Faremmo di tutto per fuggire dalla noia. Quale potrebbe essere la soluzione? Concludendo, tra il serio e il faceto, ci rifacciamo a Dargen D’Amico e a una sua canzone del 2008, intitolata “Tra la noia e il valzer”. Ebbene, l’artista meneghino, posto davanti alle due opzioni avrebbe preferito la noia. Che la soluzione per iniziare ad apprezzare la noia sia il valzer?

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