Coca-Cola rivede i target sulla sostenibilità riducendo l’uso di plastica riciclata. Critiche dagli attivisti: è un caso di greenwashing?
Secondo un’indagine realizzata dal Guardian, Coca-Cola potrebbe aver fatto un passo indietro sui suoi ambiziosi traguardi di sostenibilità. Il gigante delle bibite aveva annunciato nel 2022 che entro il 2030 il 25% delle sue bevande sarebbe stato confezionato in contenitori riutilizzabili, come bottiglie in vetro o plastica restituita ai punti vendita. Tuttavia, a distanza di due appena anni, sembra che la multinazionale abbia rivisto i suoi piani (provando a far passare questa inversione ad U sotto silenzio).
Poco dopo il summit globale sull’inquinamento da plastica, tenutosi a Busan a novembre, Coca-Cola avrebbe eliminato dal proprio sito web la sezione dedicata agli obiettivi sui contenitori riutilizzabili. Parallelamente, gli impegni sull’impiego di materiali riciclati avrebbero subito una revisione (in peggio, per gli ambientalisti e per il pianeta in assoluto): come riportato dal giornale britannico, l’azienda in precedenza prometteva di utilizzare il 50% di plastica riciclata negli imballaggi entro il 2030, ma il nuovo obiettivo parla ora di una quota compresa tra il 35% e il 40% per gli imballaggi primari e di un 30-35% a livello globale.
La decisione ha suscitato la reazione indignata di attivisti e organizzazioni ambientaliste, che non hanno atteso per accusare la multinazionale produttrice della cola più famosa al mondo di greenwashing.
Von Hernandez, coordinatore di Break Free from Plastic, ha dichiarato al Guardian: “Questa mossa rappresenta un esempio eclatante di greenwashing. Non fa altro che consolidare la percezione di Coca-Cola come il maggiore inquinatore di plastica al mondo”.
Cos’è il greenwashing e il famoso (e clamoroso) caso Volkswagen
Il greenwashing consiste nell’uso di affermazioni false o fuorvianti riguardo ai benefici ambientali di un prodotto o di una pratica aziendale. Questo stratagemma permette alle aziende di perpetuare comportamenti inquinanti o dannosi, ma facendosi belli agli occhi dei consumatori – spesso abbindolati da richiami ad una sostenibilità / a presunte politiche green. Il termine è stato coniato nel 1986 dall’ambientalista Jay Westerveld, che notò come un hotel nelle Fiji chiedesse ai clienti di riutilizzare gli asciugamani per motivi ecologici, riuscendo frattanto a risparmiare denaro, mentre allo stesso tempo espandeva la struttura all’interno di un ecosistema fragile: un caso di doppio greenwashing.
Un esempio emblematico di greenwashing è costato caro alla Volkswagen: nel 2009 l’azienda automobilista tedesca lanciò una massiccia campagna di marketing per promuovere le sue auto a “diesel pulito”. Attraverso spot televisivi, pubblicità sui giornali e con uno spot persino durante il Super Bowl (e sappiamo quanto costino le pubblicità durante il massimo evento del Football Americano, che hanno frattanto una clamorosa visibilità), la casa automobilistica vantava una drastica riduzione delle emissioni nei nuovi modelli VW e Audi. Lo slogan dello spot Audi recitava: “Green has never felt so right” (Essere green non è mai stato così giusto).
Tuttavia, pochi anni dopo, l’Agenzia per la Protezione Ambientale degli Stati Uniti (EPA) scoprì che Volkswagen aveva installato un software per aggirare i test sulle emissioni in ben 11 milioni di veicoli. Quelle che venivano presentate come auto ecologiche producevano in realtà ossidi di azoto fino a 40 volte superiori ai limiti di legge. Lo scandalo, ribattezzato “Dieselgate”, è diventato uno dei casi più noti di pubblicità ambientale ingannevole, ed è costato all’azienda tedesca quasi 40 miliardi di dollari (!) tra multe e risarcimenti.
Al netto del clamoroso scandalo del Dieselgate, il greenwashing spesso si presenta in forme più sottili e difficili da individuare: etichette ingannevoli su prodotti di uso quotidiano, iniziative aziendali che mascherano pratiche insostenibili, et similia – il greenwashing è dappertutto (e, sfruttando la buona fede di tutti noi, fa bene solo al capitalismo).