Alberto Tomba, oltre il mito: il timido che non voleva essere scambiato per guascone

Alberto Tomba si racconta senza filtri: dietro il mito la timidezza, l’ironia e un rapporto autentico con il pubblico che lo ha sempre amato.

Leggenda dello sci mondiale e tra gli sciatori più forti di sempre della storia del Bel Paese, Alberto Tomba è sempre stato considerato, complici certi gossip, come un tombeur de femme, come un piccolo rubacuori (“la tua tipa la conquisto con un mazzo di fiori” cit.) e come un guascone, con quell’aura scanzonata amplificata anche dalla gustosa imitazione di Gioele Dix. Eppure, in una intervista a cuore aperto rilasciata ad Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera, Tomba ha scelto di dipingersi in ben altra maniera, ribaltando con naturalezza l’immagine costruita attorno al personaggio.

Per ricordare la leggenda Tomba, ricordiamo i suoi clamorosi risultati

Conosciuto anche con il soprannome, attribuitogli dalla stampa internazionale, di “Tomba la Bomba”, per lo stile aggressivo in pista e il carattere estroverso, è stato uno dei grandi protagonisti dello sci alpino dal 1986 al 1998 nelle specialità dello slalom gigante e dello slalom speciale. Ed è considerato, senza forzature, uno dei più grandi specialisti delle prove tecniche di tutti i tempi, oltre che uno degli atleti più rappresentativi della storia dello sport italiano.

Sono cinquanta le sue vittorie complessive in Coppa del Mondo – 35 in slalom e 15 in gigante – un bottino che lo colloca al quarto posto tra i più vincenti di sempre, dietro nomi giganteschi come Ingemar Stenmark, Marcel Hirscher e Hermann Maier. A queste si aggiungono la Coppa del Mondo assoluta conquistata nel 1995 e otto Coppe di specialità, oltre ai tre ori olimpici: due in gigante (Calgary 1988 e Albertville 1992, primo atleta a vincere due edizioni consecutive nella stessa specialità) e uno in slalom speciale a Calgary. Senza dimenticare i due ori ai Mondiali del 1996, simbolo di una carriera costruita su talento, intensità e una fame agonistica fuori dal comune.

“Ho sempre odiato quando mi chiamavano sbruffone”

Ma passiamo alla lunga e significativa intervista rilasciata pal Corriere.

“Ero, e sono, molto diverso da come mi avete descritto. Ho sempre odiato quando mi chiamavano sbruffone. Detestavo essere definito guascone”: parole nette, che spiazzano chi è cresciuto con l’immagine del campione sopra le righe. Eppure Tomba rivendica un gesto simbolico che sembrava confermare quella fama: salire sullo skilift al contrario: “Non volevo dare le spalle ai tifosi che mi acclamavano. Così mi sono girato. E sono pure caduto”, racconta, con quell’ironia che non lo ha mai abbandonato.

Il panettone prima dell’oro e la sua idea di libertà

Sì, quel panettone mangiato tra le due manche a Calgary non è leggenda: “È vero, ma mica l’ho finito”. Un gesto considerato quasi sacrilego per un atleta, spiegato con una semplicità disarmante: non voleva restare a macerarsi nell’attesa. Preferiva stare tra la gente, scherzare, firmare autografi, vivere. Era il suo modo di scaricare la tensione. E se qualcuno interpretava male quella forma di leggerezza, poco importava: “Io adoravo il mio pubblico. E loro adoravano me“.

Girare il podio per i tifosi

Ad Adelboden, Coppa del Mondo 1995, vince il gigante e decide, con l’aiuto di Jure Košir, di girare fisicamente il podio verso la folla. Un gesto spontaneo che racchiude la sua filosofia: lo sci come competizione, ma anche come spettacolo popolare. E dietro quel gesto c’era sempre la stessa idea: non perdere mai il contatto umano, non tradire chi lo aveva seguito ovunque, dai ghiacciai svizzeri fino ai bar di provincia.

Il cittadino che dava fastidio al sistema

“Il campione doveva essere montanaro, silenzioso. Il bolognese, il cittadino, dava fastidio. Al sistema“. Tomba ha sempre pagato il fatto di essere diverso: troppo solare, troppo mediatico, troppo fuori dagli schemi. Anche quando vinceva. Eppure ha rappresentato la svolta: ha reso lo sci uno sport popolare, ha portato le gare in prima pagina, ha fatto sì che l’Italia intera si fermasse per seguire una sua discesa.

“In realtà ero un timido”

Forse è questa la frase che più sorprende: “Ero un timido. E lo sono tuttora“. Dietro l’icona c’era un uomo che soffriva gli stereotipi, che lavorava duramente, che si allenava sui ghiacciai a tremila metri, con sveglie all’alba e temperature proibitive. Altro che discoteche e distrazioni: “Frottole”. La sua era dedizione pura, rigore quotidiano, passione quasi ascetica.

L’amore, la pressione mediatica e il sogno di un figlio

La relazione con Martina Colombari è stata una delle storie più seguite degli anni Novanta. Bellissima, intensa, ma logorata da una pressione costante: riflettori sempre puntati, zero privacy. Tomba ne parla con rispetto e una punta di malinconia, senza spettacolarizzare nulla. Il desiderio di un figlio c’è stato, ma “non sposarmi non è stata una scelta”. Una frase che pesa, ma resta sospesa, come neve leggera.

Il ritiro e la “morte sportiva”

Lascia a 31 anni, dopo la cinquantesima vittoria. “Devi scegliere il momento giusto. Lasciare quando sei in vetta”. Non è stata una fuga, ma una decisione lucida. Lo stress, la pressione, la macchina della notorietà lo avevano svuotato. Eppure il legame con la montagna non si è mai spezzato: oggi pratica sci alpinismo, ama il silenzio, colleziona vino e produce olio per gli amici.

“Non cambierei una virgola”

Alla fine resta questa frase, semplice e definitiva, sulla propria vita: “Non cambierei una virgola. È stato tutto bellissimo“. Ed è forse qui che si chiude il cerchio. Non il mito patinato, non l’idolo costruito dai media, ma un uomo che ha vissuto con intensità, con slanci, con fragilità. Un campione che ha fatto innamorare l’Italia e che, oggi, sceglie di raccontarsi per ciò che è sempre stato: Alberto. Semplicemente Alberto.

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