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Brainrot, di nome e di fatto: quando lo scrolling diventa nebbia mentale (e non è più solo una battuta)

Il brainrot non è (più, solo) un meme: studi scientifici mostrano come i video brevi influiscano su attenzione, sonno e salute mentale.

Non c’è nulla da ridere, sebbene in teoria quello di cui ci apprestiamo a parlare dovrebbe far ridere (lo scrivente spesso si chiede chi dovrebbe ridere dinnanzi a questi contenuti).

Il fenomeno brainrot – termine che significa letteralmente “marciume del cervello” – esce dal recinto dei meme e si accomoda, con aria serissima, nelle pagine della scienza. Non più solo ironia generazionale, non solo slang da commento compulsivo sotto un reel, ma un fenomeno reale, osservabile, misurabile. Con effetti quantomeno inquietanti.

Brainrot, da parola dell’Anno a oggetto di studi (inquietanti)

Oxford Dictionary l’ha eletta “Parola dell’Anno” e già questo basterebbe a raccontare qualcosa del nostro tempo (un tempo che sembra la trasposizione nel reale di idiocracy).

A completare l’inquietante quadro ci ha pensato un corposo studio dell’American Psychological Association, che ha messo nero su bianco una sensazione che molti di noi, in fondo, covavano già: l’uso intensivo di video brevi su TikTok, Instagram Reels e YouTube Shorts è associato a un peggioramento delle funzioni cognitive e a effetti concreti sulla salute mentale. Non suggestioni da nostalgici del Nokia 3310, ma dati raccolti, analizzati, pesati.

La ricerca — dal titolo eloquente “Feeds, Feelings, and Focus” — ha coinvolto oltre 98 mila partecipanti, attraversando 71 studi diversi. Un universo ampio, eterogeneo, che racconta una cosa semplice e complessa insieme: più tempo passiamo immersi nei contenuti ultra-rapidi, più facciamo fatica a mantenere l’attenzione, a controllare gli impulsi, a reggere il peso di attività cognitive lunghe, lente, stratificate. Leggere un articolo, seguire un ragionamento, concentrarsi su un compito che non promette gratificazioni immediate diventa improvvisamente faticoso. Non impossibile, ma faticoso sì. E questo, alla lunga, lascia traccia.

Il paradosso è che non stiamo parlando solo di adolescenti ipnotizzati dal telefono. Il fenomeno attraversa generazioni, colpisce giovani e adulti, impatta chi studia, chi lavora, chi semplicemente “dà un’occhiata veloce” prima di dormire. Quella che doveva essere una pausa breve si dilata, si moltiplica, si infiltra nelle pieghe della giornata e finisce col dettare il ritmo stesso del pensiero.

La spiegazione individuata dai ricercatori ruota attorno a un concetto tanto tecnico quanto intuitivo: abituazione (sì, si chiama proprio così, non è un refuso). Il cervello, bombardato da stimoli rapidi, colorati, emotivamente carichi e continuamente rinnovati, si desensibilizza verso tutto ciò che richiede sforzo cognitivo. Come se il sistema di ricompensa venisse addestrato a pretendere la gratificazione immediata, relegando il resto a un fastidio di fondo. Ed è qui che il brainrot smette di essere solo uno scherzo e inizia a somigliare a una dipendenza gentile, silenziosa, socialmente accettata.

Non è solo una questione di attenzione che crolla, però. I ricercatori hanno osservato correlazioni con aumento di ansia, stress, isolamento sociale e peggioramento della qualità del sonno. Il riposo diventa più fragile, frammentato, disturbato. E non perché non si dorma, ma perché si dorme peggio, con la mente ancora in modalità scroll, ancora pronta al prossimo stimolo.

Altri studi vanno nella stessa direzione: anche solo mezz’ora di contenuti in stile TikTok riduce la flessibilità cognitiva e la capacità di prepararsi mentalmente a un compito. Il continuo cambio di contesto — un video dopo l’altro, senza pausa, senza respiro — indebolisce persino la capacità di ricordare cosa dobbiamo fare in futuro, quella memoria sottile che ci aiuta a tenere insieme impegni, promesse, idee sospese.

E poi ci sono gli algoritmi. Silenziosi, efficienti, finemente calibrati. Feed infiniti, raccomandazioni ultra personalizzate, micro-soddisfazioni che arrivano puntuali come un caffè al bar ma senza il profumo, senza il tempo, senza il gesto umano. Tutto pensato per trattenere, agganciare, accompagnare dolcemente verso un uso sempre più prolungato. Non per cattiveria, sia chiaro (o magari sì, chi lo sa). È il capitalismo, babe.

La parte ironica sta nel fatto che lo sappiamo. Lo sappiamo e continuiamo. Ci prendiamo in giro, condividiamo meme sul brainrot mentre lo alimentiamo con gesti automatici, quasi rituali. La parte preoccupante è che, nel frattempo, qualcosa cambia. Nel modo in cui pensiamo, reagiamo, ci concentriamo, ci annoiamo e forse anche nel modo in cui stiamo con noi stessi / in cui siamo noi stessi.

Come sempre quando scriviamo di temi del genere, non vogliamo suonare luddisti e la nostra è lungi dall’essere una crociata contro la tecnologia. I video brevi hanno un loro senso e sebbene non facciano benissimo se consumati a piccole dosi non ci uccideranno (un po’ come i fast food, per fare un paragone) ma ignorare il rovescio della medaglia sarebbe ingenuo: godete del brainrot, ma con moderazione.

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